Saremo davvero Charlie?

Ripubblico qui questo articolo uscito su Comune.info completo dei link che sono stati persi in quella versione.

L’abbiamo ripetuto in tanti, per giorni. Molti senza pensarci troppo, molte con argomenti e preparazione. Ma non per forza. C’era chi aveva buone ragioni, chi non ne aveva affatto. Certo a rigore non siamo Charlie. Non potremmo esserlo, non dovremmo esserlo: ce lo ricordano molte voci, con buoni argomenti. Dobbiamo ascoltarli ma dovremmo continuare a dire Je suis Charlie. Dovremmo continuare a chiedere: Anche tu? Davvero? Dovremmo diventare, e rimanere, tutti e tutte Charlie.

“Sto marciando ma sono consapevole della confusione e dell’ipocrisia della situazione” scriveva un ragazzo su un cartello domenica a Parigi. Questa è la situazione. Sappiamo quanto la cosa sia complicata. Quanta ipocrisia ci sia nella parata dei governanti o nella retorica dei media. Ma dovevamo essere lì, dovevamo continuare ad essere Charlie. Sciocchi e incoerenti come solo chi fa satira può essere. Anche se non siamo Charlie, dobbiamo esserlo. Certo può dirlo Vauro o Jacopo Fo. Quasi certamente non non può dirlo Marine Le Pen, Matteo Salvini o, peggio, Mario Borghezio. Certo quest’affermazione, come questa strage, verrà usata contro la libertà, contro la pace, contro Charlie. Contro di noi. Certo.

Ma quest’affannarsi a sottilizzare, a rivendicare il giusto senso delle parole, il pieno e legittimo diritto di pronunciarle lasciamolo ad altri. Il senso critico, l’esprimere diversità, non deve per forza tramutarsi nella vocazione alle solitudine, nello stringersi all’angolo di chi perde sapendo, ovviamente, di aver ragione (Euli, Amlo, Bascetta,…). Ma non vi preoccupate. Non vi è stato nessun unanimismo. Non tutti vogliono essere Charlie. Non vogliono melassa o buonismo mentre si prepara la guerra (Berlusconi, Ferrara,…). Lo scopriremo presto: “il problema non è la libertà. Il problema è la violenza […] Se non rinunciamo alla nostra violenza inevitabilmente generiamo violenza in chi non la pensa come noi” (Sabelli Fioretti).

Per questo vogliamo essere Charlie. Rappresentare l’immaginario dello sberleffo, la vignetta contrapposta alla morte e all’omicidio. Charlie esprime, suscita, interpreta quel rifiuto della violenza, della guerra già così popolare e poco valorizzato durante la seconda guerra del Golfo. Eppure questo hashtag è stata un’esperienza di massa. Un’onda, una risonanza collettiva.

E questo ci piace. Per qualche attimo migliaia milioni di persone hanno fatto esperienza di essere Charlie. Hanno provato, hanno visto, hanno sentito come Charlie, hanno pensato la matita contro il mitra, la risata dissacratoria contro l’intransigenza ideologia, il bacio appassionato e proibito contro la difesa ferrea dei confini.

E noi che facciamo? Perdiamo questa occasione?

Facciamo affermare, ripetere, scandire, Je suis Charlie a Netanyahu o Santanché? Non possiamo continuare ad aver paura che le nostre idee vengano ribaltate. Abbiamo poco più delle parole, e ora abbiamo i mezzi per ricordare per sempre questa frase a chi l’ha pronunciata. Facciamo che vengano usate, riempiamole di senso. Che fantastica occasione di essere finalmente un eroe popolare, un multiple name della satira, un nuovo scanzonato simbolo pop della cultura della nonviolenza.

Eppure sappiamo il rischio che corriamo. Abbiamo tragicamente imparato dai nostri errori. Avete visto la nostra biografia, siamo mulatti, abbiamo diverse origini e storie. piedi in molte staffe. Ora sarà definitamente arabo e francese, mussulmano e ateo, maschio e femmina, serio e faceto Sempre più imparerà a far ridere ma ridendo insieme e non di qualcuno: da fuori, da lontano, contro (Halim Mahmoudi, Della Ratta). Charlie è abbastanza maligno da riconoscere e canzonare la nostra stessa ambizione. Sarà così inabile alla leva, un “allegro e scanzonato disertore(Vauro), da essere incapace di prender troppo sul serio questa sua stessa invocazione, questa promessa.

Possiamo disseppellire la risata. Siamo e resteremo ridicoli. Saremo stupidi.

Saremo davvero Charlie.

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