Informati! Chiama! La noncomunicazione nonprofit

Il terzo settore fatica a comunicare. ll non profit non riesce a farlo chiaramente. Su questo spesso ci troviamo d’accordo. Meno sul motivo. A mio avviso dipende anche da un atteggiamento, da un approccio, da un’idea di relazione e partecipazione.

Ne ho avuto una piccola conferma qualche giorno fa. Ho avuto una breve discussione con una donna forte e preparata. Già presidente di un’associazione, componente del consiglio direttivo di un’importante federazione di associazioni. Stavo cercando di capire qualcosa in più su queste realtà. Cercavo di farle capire la mia difficoltà nell’orientarmi avendo a disposizione esclusivamente siti in cui trovavo spesso solo delle istruzioni per iscriversi e la richiesta di donare il 5xmille. Nessun chiaro dettaglio su attività, persone, orientamenti. Luoghi di incontro o appuntamenti per informarsi ed essere coinvolti. Opportunità per partecipare…

Devo averla, senza volere, indispettita. Me ne dispiace: è donna, da quanto so, passionale. Ma questo diverbio ha secondo me favorito la chiarezza. Estremizzato un non detto .

“Informati! Devi fare uno sforzo! Potevi chiamare: sul sito c’è il mio numero di cellulare”. E poi, “siamo volontari, non possiamo far di più, noi abbiamo faticato molto per raggiunge quello che abbiamo realizzato… Ora tocca a voi.”

Probabilmente aveva ragione. Non mi ero impegnato abbastanza nella ricerca, probabilmente mi è sfuggito qualcosa. Non ero abbastanza motivato. Forse.

Ma questa è una risposta che si può dare? Sono cose che si devono pensare?

Raggiungere un’associazione deve essere difficile? Deve richiedere un qualche sforzo o dedizione particolare?

Essere accoglienti, inclusivi, “in espansione”, richiede forse un atteggiamento diverso. Bisogna essere “a bassa soglia”. È quell’approccio culturale alla relazione del commercio tradizionale riassunto dal motto: il “cliente ha sempre ragione”. Non perché l’abbia davvero, ma perché dobbiamo assumerci il carico del suo punto di vista, dobbiamo avere cura della relazione fallita, dell’informazione non notata. È nostro il compito di costruire adeguate interfacce di relazione.
Il resto è linguaggio da iniziati, quello dei club esclusivi, delle logge. Il rischio di una fatica che si amplifica giorno dopo giorno. Di un gruppo sempre più ristretto. Dopo ogni persona interessata che non è riuscita a trovare la pagina giusta, che non ha trovato cose da chiedere al telefono, o il coraggio di disturbare…
È il circolo vizioso che avevo descritto (e disegnato) in Comunicazione sociale 2.0 (pp.172-173):

La prima certa correlazione della pratica della comunicazione sociale svolta dal terzo settore è quella con la consistenza e articolazione organizzativa misurata nei termini dei processi di specializzazione, allargamento e professionalizzazione delle competenze e degli strumenti mediali. Il tradizionale punto di vista sull’adozione di tali strumenti e pratiche li considera il risultato dell’avvenuta crescita, come compimento di un percorso: “la faremo quando avremo abbastanza risorse o personale…” La prospettiva, come la proposta, degli esperti di marketing o degli studio di comunicazione può essere opposta. La azione comunicativa si configura come investimento, come possibile causa o origine dello sviluppo dell’organizzazione, la conseguenza di una scelta strategica: “quando comunicheremo meglio cresceremo e saremo in grado di incidere di più…”

 Sia che si intenda la pratica comunicativa come investimento per l’accrescimento strutturale o come conseguenza dell’avvenuta crescita questo nesso favorisce, senza dubbio, la capacità delle associazioni e delle imprese sociali di allargare il campo di attività oltre che la capacità di dialogo con stakeholder e opinione pubblica. Ad esempio, è oramai evidente quanto la capacità di fornire beni simbolici e relazionali, insieme alle risorse cognitive e identitarie, da mettere in circolo attraverso l’attività associativa, costituiscano le componenti di maggiore attrattiva per i giovani volontari e volontarie, per i soci o per coloro che contribuiscono economicamente. Spesso tale mancanza, vissuta dalle organizzazioni come ristrettezza oggettiva, diventa una delle cause del mancato investimento nelle attività comunicative. Effetto che a sua volta contribuisce a rinforzare la causa costruendo un vero e proprio circuito vizioso:

  1. Pochi volontari e volontarie, insieme alla carenza di risorse, rende più arduo l’uso degli strumenti di comunicazione.

  2. La mancata attivazione degli strumenti mediali rende povero o, più spesso, poco rintracciabile il giacimento di beni simbolici e relazionali da “mettere a disposizione” dei volontari e volontarie.

  3. La mancanza, o meglio, la mancata riconoscibilità dei beni presenti, rende poco “attraente” l’attività presso quella organizzazione contribuendo alla carenza di risorse e “organico” mentre toglie «un freno significativo ai processi di istituzionalizzazione degli interessi organizzativi» (Borzaga e Fazzi 2001, p. 49).

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