Con la comunicazione (violenta) saprete da che parte stare

La comunicazione, a quanto pare, può essere violenta e nonviolenta. Sì, persino la comunicazione può essere nonviolenta. Può anche essere chiarita o declinata come comunicazione dialogica, ascolto attivo, gestione dei conflitti, educazione compassionevole, eccetera, eccetera. Un tratto ricorrente di questo modo di comunicare è che riguarda le persone, funziona in una dimensione molecolare. E’ centrata sulle relazioni interpersonali, comportamenti verbali e non verbali, punti di vista soggettivi e la capacità di aprirsi al confronto con gli altri. Per questo motivo appare meno adatta ai conflitti tra gruppi sociali, al confronto culturale collettivo, ai dibattiti pubblici, alle dispute politiche (a parte le pratiche di negoziazione). In quella pare dominare la violenza, o, per lo meno, non si trovano ragioni o possibilità di sviluppare una modalità nonviolenta di comunicazione.

Eppure è possibile. Si possono trovare esempi in situazioni particolari, prendendo spunto da ambiti distanti, inaspettati. Persino tra le condoglianze.

Come trattare il “cadavere del nemico”?

Trarre soddisfazione dalla morte altrui non è una bella cosa da fare.

Questa banale constatazione, per quanto non sempre condivisa in modo unanime, pare fondarsi solo su un rilievo etico, su una barriera morale. Una barriera da superare, almeno nei paradossi delle chiacchiere da bar solo per delle figure univocamente definite tali, da crimini o criminali particolarmente evidenti ed odiati: Hitler, pedofili, serial killer, zingari… Almeno così pensavo fin da quando sono stato rimbrottato da una brava professoressa per aver gioito, peccati di gioventù, per la morte dell’Ayatollah Khomeini.  Certo il discorso è diverso per persone normali, per quanto celebri: politici, star, intellettuali. Imprenditori.

Eppure è proprio un dibattito intorno al decesso di un persona (famosa) a permetterci di spostare l’attenzione da questioni etiche al rapporto tra comunicazione e pubblico dispregio.

E’ avvenuto durante la trasmissione numero #107 di Digitalia grazie ad un intervento di Franco Solerio riguardante la prematura dipartita di Steve Jobs il 5 ottobre 2011. Oggetto del contendere era la dichiarazione di Richard Stallman, uno dei principali pionieri ed propugnatori del Software Libero e (quindi) avversario storico della pratica dell’utilizzo di software proprietari da parte di Apple. Già l’incipit era chiaro:

Steve Jobs, il pioniere dei computer foggiata come una prigione fatta cool disegnato per separare gli sciocchi dalla loro libertà, è morto.

L’intervento citava poi le parole di un sindaco di Chicago Harold Washington relativa alla morte del corrotto Primo Cittadino precedente (la citazione si rivelò non corretta e rettificata da una successiva dichiarazione dello stesso Stallman):

“Io non sono felice che sia morto, ma io sono lieto che se ne sia andato”

Separare le squadre

Com’è naturale la presa di posizione ha scatenato un forte dibattito in rete e una serie di commenti, ma non è questo che ci interessa ora esplorare. Ci pare un ottimo esempio di come una forma di comunicazione possa portare ad accentuare o ridurre i conflitti e perché. Perché si sceglie una modalità espressiva conflittuale anche se chi la usa sa che questa scatenerà polemiche e risposte stizzite?

Le parole di Stallman all’apparenza parlavano a tutte le persone che utilizzano mezzi informatici.

Abbiamo tutti il diritto di veder finire la fine della maligna influenza di Jobs nel computing della gente.e”

Foto da Q. Fiore e M. McLuhan "Medium is the massage"

Foto da Q. Fiore e M. McLuhan “Medium is the massage”

Eppure, a ben vedere, l’obiettivo del messaggio non era di parlare a tutti, ma a qualcuno. Non si rivolgeva certo a chi apprezzava o addirittura ammirava l’opera e la personalità di Jobs. Infatti queste non potevano non esserne infastidite, persino offese. In un’arena pubblica, mediatica, la conversazione non è mai a due. Esistono numerosi spalti, vari punti di vista, diverse posizioni. Ogni azione comunicativa fornisce aspetti diversi ad ogni sguardo, ogni performance illustra una particolare interpretazione per ogni occhio.

Una sfumatura individuata dal conduttore di Digitalia. Per Franco Solerio infatti queste dichiarazioni sarebbero sbagliate proprio perchè accentuavano una divisione. Formavano una frattura tra chi già parteggiava per il software libero contro chi non lo è o chi, come Jobs, rappresenta aziende produttrici di programmi informatici del tutto chiusi. E’ un tipo di comunicazione finalizzata proprio a rafforzare le identità, a separare gruppi e comunità, a fornire argomenti per chi è dalla nostra partefatalmente a aumentare la distanza con chi è dall’altra. Convince chi è già convinto.

Un alternativa nonviolenta

Secondo Solerio invece: “Se fai uscite di questo genere danneggi la tua comunità”. Un punto di vista preoccupato proprio di convincere chi non è già convinto, proponendo ad esempio questa formula:

Siamo dispiaciuti di quanto avvenuto a Steve Jobs. Aveva una visione opposta alla nostra ma ha fatto molto per il computing.   Abbiamo provato per tutta la nostra vita ad incontrarlo per spiegargli il danno che stava facendo. Mi spiace che sia morto perché non avrò più occasione di incontrarlo.

Questo è un esempio di approccio nonviolento alla comunicazione.

1. Parte dal rispetto del dolore e della sofferenza. Emozioni ed esperienze che accomunano tutti gli esseri viventi, a prescindere da ogni divisione.

2. Insiste sulla necessità del dialogo, della forza delle ragioni e quindi della loro capacità di persuasione. Quindi non attraverso la sconfitta delle visioni altrui ma del con-vincere.

3. Riconosce la legittimità della posizione altrui. Non cerca di porsi in una posizione di superiorità. Cerca di porsi da entrambi i punti di vista.

Tutte premesse della gestione creativa dei conflitti. Bisogna però ricordare la differenza fondamentale: qui si prescinde dalla capacità (o concreta possibilità) di convincere davvero l’interlocutore (il management Apple). Questo tipo di approccio parla al “pubblico”, a chi assiste alla discussione più che all’avversario di turno. Come lo slogan ironico “Semo venuti già menati“, è nonviolento. Come nel jujitsu perché punta a togliere punti d’attacco alla controparte, diminuire le occasioni di aggressione, cerca di sventare ogni contrapposizioni frontale, manichea, aggressiva. Rende la propria più parte meno agguerrita tentando di rendere il “fronte avversario” meno monolitico, più disposto al dialogo. Più aperto.

Cerca lo stesso di convertire, ma con un sorriso.

Per approfondire:

“Identità: abbastanza ma non troppa” capitolo del Manuale dell’identità visiva per le organizzazioni non profit.
Per una più ampia spiegazione (e bibliografia) dei limiti e dei rischi di una comunicazione delle identità.

Pat Patfoort “Io voglio, tu non vuoi. Manuale di educazione nonviolenta(Edizioni PLUS, Pisa University Press, 2010)
Per una chiara descrizione del metodo nonviolento nella gestione delle relazioni partendo dall’educazione.

Germi di nonviolenza in acque agitate a cura di Ester Fano (Ediesse Libri, Roma, 2012).
Perché si possono scoprire strade per superare le divisioni persino in uno dei conflitti più lunghi del nostro tempo, quello Israelo-Palestinese.

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No Responses

  1. 30 Aprile 2013

    […] Con la comunicazione (violenta) saprete da che parte stare […]