Quando un movimento comunica con una controparte deve usare per forza una voce sola?

Immaginiamo questa situazione.

Un folto gruppo di genitori di una comprensorio scolastico scuola si reca a protestare dal Presidente di un Municipio di Roma. Una delegazione. Si protesta per vari e sovrapposti lenti disguidi, inefficienze cialtronesche, burocratiche difficoltà, sfortune cosmiche che impediscono ai loro figli e figlie di giocare negli spazi aperti offerti dai rispettivi edifici. Sono piuttosto arrabbiati.

Non è la prima volta che affrontano la situazione, non è la prima volta che incontrano livello amministrativo e politico. Iniziano a capirne il funzionamento. Alcune persone hanno già qualche esperienza politica. Sembrano farla fruttare.

Inizia l’incontro.

Si inizia bene. Uno dei genitori introduce e spiega i numerosi problemi, le soluzioni già tentate, le promesse non mantenute, le “precise richieste”. L’amministratore prende la parola, cerca di spiegare, riassume i tentativi, propone, suppone. A quel punto tra l’uditorio riunito in circolo tutto intorno al protagonista della mattinata rompe il silenzio. Iniziano primi interventi, voci, richieste. Una signora, una nonna, interviene. Chiede che almeno una dei quattro spazi disponibili venga riaperto. Voci scomposte di dissenso dalla folla: il primo portavoce aveva appena chiesto altro. Con qualche ordine arrivano altre voci, maestre chiedono manutenzione ordinaria, altre mamme spiegano possibili soluzioni. Finalmente si giunge ad una conclusione.

Rimane un dubbio. Chi e come una collettività organizzata deve parlare in occasioni simili? Una voce singola? Una proposta unitaria proposta da una o più persone in modo coerente e fermo. Più voci? Un diffondersi di voci, differenze e contrasti, tipici delle assemblee.

Di solito la prima è la scelta del buon senso e quelle indicate delle tradizionali “regole” della buona comunicazione politico-sindacale.  Allora perché tante persone adulte non vi si attengono?

Alcune opzioni.

1. I singoli non sanno pensare come collettività, come forze contrattuali. Manca ormai l’abitudine, la socializzazione, la prospettiva del confronto pubblico, dell’organizzarsi per un obiettivo comune, della prassi democratica, della cittadinanza attiva.

2. Le collettività sanno sempre meno organizzarsi. Non riescono a trovare punti di vista comuni, mediare, costruire piani d’azione,  mettere in ordine le priorità, pre-stabilire l’azione.

3. I singoli non vogliono farsi confinare in una collettività. L’unicità d’azione e di voice non appare più la logica conseguenza dell’agire collettivo. La pluralità appare incomprimibile, sempre meno riassumibile in poche parole.

In entrambi i casi questa opera democratica richiede lavorio, cura. Occorre ricostruire formazione alla partecipazione. Oppure riannodare capitale sociale, sapienza alla cooperazione. Oppure abbandonare le “regole” ottonovecentesche della partecipazione delle masse, della sua comunicazione di massa. In ogni caso edificare prassi di una comunicazione (in ogni caso) sociale. Il plurale che comunica o una comunicazione che fa esprimere pluralità.

Quale “regola” è da buttare?

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